L’ARTE SENZA TRUCCHI E LA VITA DISINCANTATA DI BRUNO ROVESTI
di Alfredo Gianolio
Bruno Rovesti (Gualtieri 1907-1987) non ha avuto bisogno di essere “scoperto” per porsi all’attenzione del pubblico che, agli esordi, è solitamente distratto o indifferente, comunque poco disposto a riconoscere immediatamente e senza mediazioni il valore di un artista.
Rovesti, forse per la sua potente, fantasmagorica e inequivocabile “naivetè” si impose immediatamente senza passare attraverso filigrane di critici e studiosi in qualità di garanti.
Le sue opere vennero subito accettate nelle grandi metropoli. Nel gennaio del 1952 tenne una mostra personale a Roma nella galleria Amici della Francia, in corso Vittorio Emanuele, presentato da Raffaele Carrieri, Cesare Zavattini e Giorgio Kasserian. Sulla terza pagina del Corriere della Sera del 4 gennaio 1952, apparve inaspettatamente una prestigiosa critica di Leonardo Borgese, che lo definiva con pochi e incisivi tratti: “Un vero ingenuo senza trucchi... poetico, buono, gentile. Nel genere è perfetto, è un maestro…” (si rinvia all’Antologia critica per il testo completo).
Così lo videro, conoscendolo da vicino, familiari, amici e conoscenti:
“Lui non aveva l’autista - mi dice PALMIRA CAVALLI ROVESTI, moglie di suo figlio Natalino - fui io a fargli da autista. Lo portai anche in Svizzera sul lago di Ginevra per partecipare all’inaugurazione di una sua mostra. Allora ero molto giovane, spregiudicata, non avevo paura di niente. Parlo di quarant’anni fa. Lo portai anche a Roma più volte. Per andare a Roma in treno ci voleva un giorno, e io allora, per far prima, lo portavo in macchina. Ha cominciato a dipingere piuttosto tardi, verso trentasette anni, dopo di aver molto sofferto. Alla leva militare era stato scartato, come si diceva allora, forse perché era malaticcio, troppo magro, non so bene i motivi. Non ne parlava mai perché per lui era un’umiliazione molto forte non aver fatto il militare. Tanto è vero che quando c’è stato il reclutamento di volontari per partecipare alla guerra di Spagna lui, per riscattarsi da quella umiliazione, andò subito ad arruolarsi. Poi partecipò a diverse altre guerre: in Albania, in Grecia, in Jugoslavia. Ci teneva tantissimo, nonostante che, in Spagna, fosse rimasto ferito da una pallottola che gli trapassò una spalla. Quando rientrò in patria, fu ricoverato, affetto da tbc, all’Ospedale Sant’Anna di Castelnuovo Monti, ove rimase dal 1947 al 1949. Fu allora che esplose la sua vocazione artistica, per una strana circostanza. Durante una passeggiata trovò 50 lire. Tornò sui suoi passi, per scrupolo chiedendo ripetutamente chi avesse smarrito quei soldi. Lo chiede con insistenza all’ospedale e anche a chi incontrava casualmente per strada, essendo di un’onestà incredibile. Non avendo ottenuto alcuna risposta, gli venne l’idea di spendere quei soldi per 1’acquisto di colori, pennelli e cartoni, iniziando così a dipingere i suoi primi quadri”.
Sua moglie VITTORINA MANTOVANI era arrabbiatissima perché a casa non sapeva come fare dovendo provvedere al mantenimento di tre figli piccoli mentre lui spendeva i soldi, anche quelli del sussidio, per colori e pennelli. Ella cercava di cavarsela andando a servizio dalla madre del pittore e scultore Marino Mazzacurati, tra i fondatori, con Scipione e Mafai, della Scuola Romana e della rivista Fronte. La signora Mazzacurati le disse: “portami qualche suo quadro che lo farò vedere a mio figlio al suo ritorno da Roma”. Marino Mazzacurati quando li vide rimase sbalordito e affascinato. Gli organizzò subito nella capitale una mostra personale, visitata da molte personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui Valter Chiari. Questi, senza successo, gli chiese di acquistare delle sue opere.
La nipote ROSSANA GOMBIA ricorda che gli esordi artistici del nonno furono subito spettacolari. “Lo accompagnai diverse volte a Roma - dice - per una mostra a Palazzo Braschi, che ebbe un successo strepitoso, e per altre mostre alla Galleria di via Frattina. Inizialmente andava a Roma in treno. Prendeva il treno dalla stazione di Gualtieri per Parma poi da Parma, grazie alla coincidenza, quello per Roma.
Il treno da Gualtieri partiva alle sei del mattino ma lui alle cinque era già in stazione, anche nelle
giornate invernali, quando nevicava. Gli grattava la gola e aveva ripetuti colpi di tosse, la tossina, forse in conseguenza delle infermità avute nel periodo bellico. Lo sentiva la moglie del capostazione che diceva al marito: «Dai, Celso, va a chiamare Rovesti, fallo entrare perché si scaldi»”.
PIERGINO CHITTOLINI, appassionato d’arte di Gualtieri dice:
“Vengo da una famiglia di ufficiali postali quindi in mezzo a gente, che ha sempre avuto interessi e curiosità di ogni genere.
Mio padre in primis, mi portò a conoscere Bruno Rovesti. Ho conosciuto anche Ligabue che veniva ospitato da mio padre che ha avuto dei suoi quadri ma in cambio ha dovuto sopportarlo, impresa tutt’altro che facile, per il suo terribile carattere. Verso gli anni cinquanta emerse la straordinaria personalità di Rovesti, che conobbi anche prima che incominciasse a dipingere.
Io e le mia famiglia avemmo anche dei rapporti con Mazzacurati - che, nato nel 1907, aveva 1’età di mia madre - e con altri che seguivano gli eventi culturali tra Gualtieri e Guastalla e non erano pochi, un’area dove si concentravano non solo molti emergenti naifs , ma anche artisti acculturati come Moscardini, Battoli, Mozzali, Daolio, Miglioli, la Leoni, la Bittasi ecc. Dall’ufficio postale di mio padre passavano messaggi, inviti, dépliant, cartoline, telegrammi e quindi non ci sfuggivano le iniziative artistiche.
Bruno Rovesti mi divertiva per il suo modo così disincantato e molto affascinante di concepire la vita. Accompagnai diverse volte a casa di Bruno il direttore delle poste che era innamorato della sua pittura e sperava di poter avere un suo quadro grazie all’importante carica che ricopriva. Ma Bruno non era il tipo da cadere in una trappola del genere. Accadeva che, quando il direttore, perduta la speranza di avere un’opera in omaggio, si dichiarava disposto ad acquistarla per il prezzo richiesto e sembrava che 1’affare si concludesse, Bruno mi si avvicinava dicendomi: «Ti devo fare sapere una cosa: se mi vuol dare quei soldi, vuol dire che pensa che il quadro ne valga di più e quindi non glielo do». Quindi ritirava 1’offerta. Io allora dissi a Rovesti: «Ma mettetevi d’accordo, quello viene sempre, non molla, è un mio superiore, fallo per me!»
Un giorno, in qualità di impiegato postale, dovevo recapitare a Bruno, quando ancora abitava a Codisotto, un telegramma nel quale gli si annunciava che era invitato a una mostra in una città svizzera. Glielo portai in bicicletta e, mentre arrivavo, fui ripreso da un operatore cinematografico che era a Gualtieri per una ripresa su Rovesti. Era stata poi girata una scena alla stazione di Gualtieri della linea Parma-Suzzara dove sostava un treno con la locomotiva a vapore. Era in attesa della partenza per Parma un gruppo di studentesse, tra le quali anche mia sorella Cosetta, Maria e Simonetta Allegretti e Mimi Canova. Tra di esse c’era anche Rovesti. La scena della partenza venne girata e debbo dire che suscitò molta emozione e molti commenti”.
L’ostinazione a non vendere i suoi quadri per non privarsi della loro confortante presenza si manifestava nei confronti di tutti, indipendentemente dalla loro condizione. Non voleva nemmeno venderli all’on. Giuseppe Amadei, nota personalità politica ed esperto d’arte. Dice in proposito la nipote Rossana: “Ogni settimana, di ritorno da Roma, 1’on. Amadei si fermava da Rovesti per vedere che cosa avesse fatto, e ogni volta si innamorava di un quadro che stava per finire. E gli diceva: «Questo tienilo per me, lo voglio comperare». La settimana dopo ritornava, guardava e diceva: «Ma quello non è il quadro che ho visto la volta scorsa, me lo hai cambiato!» Bruno assicurava che era lo stesso quadro ma poi, rivolgendosi a me, sussurrava: «Sta fresco se vuole quel quadro. Non ho intenzione di darglielo perché, se piace ad Amadei, vuol dire che è molto bello e non glielo vendo più!»”
L’attaccamento ossessivo alle proprie opere rientra in un comportamento tipico dei pittori appartenenti all’art-brut. Lo ha ben precisato Giambattista Voltolini: “È come se le opere fossero una parte di sé, da cui non ci si vuole staccare, anche dopo che sono state completate… l’Autore è in una fase di ricostruzione del proprio sé: se durante questo percorso incontra ed opera 1’Art, allora si comprende come ogni foglio, ogni segno, ogni simbolo venga inglobato, faccia parte di lui, e 1’Autore tenda a separarsene con grande fatica, con timore, con un senso di perdita…” ( L’Arte naive, rivista diretta da Dino Menozzi, n. 58, giugno 1997, ripubblicato in Art Brut - considerazioni, AMSP, Reggio E., 2009, pag. 14).
Rovesti non ha avuto bisogno per affermarsi di un periodo di apprendistato, di dare inizio a un nucleo dal quale sviluppare tendenze da ulteriormente sfrondare e migliorare. L’opera si formava nella sua mente e lì si componeva e vi si dislocavano tutte le sue parti perfettamente equilibrate e quindi, materialmente tramite il pennello, dalla mente passavano sulla tela mostrandosi nella loro perfezione. Par questo motivo Rovesti ebbe immediato successo. Vedendo le sue opere, anche le prime, si rimaneva colpiti ed appariva superfluo fare richieste riguardo alla loro genesi. Era entrato nelle grazie del critico francese Anatole Jakovsky, esperto di arte naive a livello europeo. Condivise la premiazione che Bruno Rovesti ottenne a Parigi ove gli fu riconosciuta un’importanza che andava ben oltre 1’ambito padano e anche nazionale. Rovesti se la era in anticipo riconosciuta, qualificandosi appunto “contadino celebre europeo”, nella traduzione di Jakovsky “le peintre campagnard celèbre”. Jakovsky compie una esatta descrizione del suo stile mediante una fedele trasposizione verbale: “...les couleurs suivent ses idées e se idées dictent ses actes...sa violance s’attenue peu à peu pour ne laisser que des images boucoliques, à la foi reveuses e graves de sa vallèe du Po où les brouillards persistants savent créer de merveilles sans pareilles. A tei point que, dans ses dernières gauches et tableau, la nature, les ètres et les choses baignent dans une lumière interieure intense, phosphorescente, ou presque, très proche.
Ensomme, d’un Odilon Rédon” (A. Jakovsky, Questi pittori della settimana di sette domeniche).
Nei primi tempi Rovesti a Gualtieri non abitava nell’attuale villa, ma in un decrepito casolare in località Codisotto. In occasione del grande successo riportato a Parigi lo andai a intervistare per la rivista Reggio 15. “Non mi ha fatto nessuna impressione Parigi - mi disse subito - per me tra Gualtieri e Parigi non c’è differenza. Non mi ha fatto effetto perché positivamente ho girato tanto e poi tanto durante le guerra. C’era anche l’ambasciatore alla mia mostra alla galleria Antoinette, uno del Governo e tutti i grandi personaggi francesi, fra cui Paslewski, presidente dell’Associazione France-Italie. Volevano comperare tutti i miei quadri in blocco, fare un stock di tutta la merce, ma io non ho voluto”. Per raggiungere a Codisotto il suo “studio” - un bugigattolo tre per due e mezzo - che si affacciava su uno stanzone dove erano disposti i suoi quadri come in una galleria, ci si doveva arrampicare lungo una scala buia e sbilenca.
Unico indice di “benessere” era un caldo quasi soffocante alimentato da una furiosa stufa a kerosene. “Non venderei niente - mi disse - se non fosse per quel pasticcio”. Il pasticcio era una casa iniziata due anni prima e che doveva essere ancora coperta, una casa nella quale mi disse di non voler mai andare ad abitare. Venne costruita lentamente, nei giorni festivi da suo figlio Natalino e dai parenti che gli davano una mano. La casa si era trasformata in un alibi che gli permetteva di venire di tanto in tanto a patto con la propria coscienza, acconsentendogli di vendere qualche quadro. “Ma - aggiunse - quando sarà finita la casa dovrò tener chiuse le porte, il tre mangia il due”. Poi trasse da un cassetto dei biglietti da mille che accarezzava con voluttà. “Bisogna andare piano a spenderli - continuò - non voglio fare la fine di quelli che muoiono come angeli vicino al predellino delle braci...” Sembrava superato, grazie alla casa, e alla necessità di erigerne le mura e di coprirla col tetto, il lungo periodo nel quale ostinatamente si rifiutava di vendere i suoi quadri, quasi che essi fossero la sua stessa vita, che non poteva mettere all’incanto.
Quel periodo persiste sempre nella memoria di familiari e amici, un periodo “eroico”, nel quale si concentrò il suo estro artistico. Ricordano in particolare la disperazione della moglie, che cercava di convincerlo a vendere richiamandolo al più elementare buon senso. C’era fra i coniugi una contrapposizione di caratteri come fra Don Chisciotte e Sancho Pancia, ma non senza una complementarietà, come fosse lo sdoppiamento di un unico essere, 1’uno la coscienza dell’altro e viceversa. La donna, di complessione robusta e con faccia aperta al sorriso scrutava il pittore contadino-celebre-europeo nel vano sforzo di carpirne il segreto. Lei conquistata dalla civiltà dei consumi, lui agli antipodi, radicato in un arcaico mondo che accettava perché vi riconosceva se stesso, il suo passato, il suo presente e il suo futuro, la sua esistenza, il suo mondo rispecchiato nei suoi quadri.
Il figlio NATALINO ricorda che il padre amava mostrarsi in pubblico acconciato da cacciatore.
Gli piaceva andare in piazza col fucile a tracolla. Faceva il giro della piazza pavoneggiandosi.
Amava le armi anche in conseguenza di tutte le guerre che aveva fatto. Ma non era pericoloso.
Qualche volta andava a caccia, ma non beccava mai niente. Gli piaceva però presentarsi in paese come un esperto cacciatore, con tanto di cartucciera e gambali. “ Tuttavia io, per sicurezza - dice - senza che lui se ne accorgesse, toglievo il caricatore dal fucile. Al ritorno dipingeva quegli aspetti del paesaggio di golena che lo avevano più colpito, trasfigurati dalla sua fantasia, ma non voleva che io stessi lì ad osservarlo, mi mandava via. Nelle vesti del cacciatore si sentiva protetto e difeso dagli attacchi provenienti dalla gente del paese, che, in modo provocatorio, gli raffiguravano Antonio Ligabue come suo irriducibile avversario, antagonista e competitore, mettendoglielo contro per suscitare le sue rabbiose reazioni. Quando faceva il giro della piazza in tenuta da cacciatore gli dicevano: «Toni l’è più brav che te! Te at fe di faciòt c’an scapèss mia dua abian i occh!» E lui rispondeva: «Ma lui fa solo degli animali, mentre io faccio uomini e paesaggi». Bruno tornava a casa molto arrabbiato, perché - lamentava - «tutte le volte che vado fuori mi dicono che è più bravo Ligabue!»”
Rovesti nei confronti di Ligabue avvertiva quel rispetto e quella considerazione che solitamente negava aprioristicamente agli atri pittori. Quando ne parlava immediatamente veniva meno in lui quel senso di superiorità che avvertiva verso gli altri artisti, grandi o piccoli che fossero. Lo avvicinava a Ligabue probabilmente la consapevolezza di far parte di una sorte comune, quella del naif solitario e isolato che fatica a farsi capire, a farsi prendere sul serio e, per questo, deve tenere il più possibile alte le sue carte. Era l’unico, fra tutti i pittori conosciuti, al quale, pur con la evidente preoccupazione di non mettersi in ombra, avesse riconosciuto fra i denti la qualifica di “grande”, sempre però ad un livello paritario con il suo. Questo chiaramente emerge dal suo autobiografico racconto in Vite sbobinate e altre vite (Quodlibet, 2013).
“Ligabue lo conosco e lo conosco ancora bene, anche dopo la sua morte. Veniva in casa mia a prendere la polenta da mangiare, ci davo poco companatico, perché ce n’era poco, però ci ho sempre dato qualche cosa, ci ho imprestato anche dei colori che gli ho regalato perché non li ho più visti. A ogni modo Ligabue lo conosco abbastanza bene e so proprio che era un grande artista e che ha sempre fatto cose molto belle, ecco perché. Ci hanno messo uno contro l’altro, è stata certa gente, gente analfabeta, che non sanno neanche che cosa vuol dire pennello, non sanno, e allora per quindi sono degli incompetenti, gente che non capisce niente, che non arriveranno mai ad avere una maturazione per una qualche tendenza, che non arriveranno mai allo scopo di difendersi profondamente, artificialmente sì, profondamente no. Dicevano che io ero un gonfiato, ma io non sono mai stato gonfiato. Anzi di più, io sono stato uno che ha sempre difeso Ligabue, anche quando gli tiravano della terra, gli tiravano dietro delle pietre, io questo non gliel’ho mai fatto, io gli ho voluto troppo bene a Ligabue. Quando si andava fuori si andava dalla Gelati a mangiare lo spuntino me e lui, dei soldi ne avevamo pochi, non ne avevamo quasi niente, io ne avevo pochi perché il soldo era corto, si può immaginare che cosa si poteva fare tutti e due.
«È lo stesso - diceva la Gelati - pagate anche domani».
«Beh, signora porti pazienza che io domani le porto i soldi». E io la mattina le portavo i soldi.
Quando è morto Ligabue io non ci sono andato. Io non ho la malattia di andare dietro dei fùnebri. Io ne ho visti tanti distesi per terra e c’ero anch’io in mezzo alla vita e alla morte e per quindi da allora io a dei morti non ci vado dietro come fanno tutti che vanno dietro per scuriosare, per vedere, ma non c’è niente da vedere a un funebre, un funebre non parla più. Cosa avete da guardare, se scoperchiano la cassa vi faranno vedere il morto dentro la cassa, cosa avete di scopo di andare tutte le volte dietro a tutti per essere curiosi! Io sono invece un altro tipo, non ci vado perché ne ho visti troppi, ne ho visti, per quindi nella mia vita servendo il nostro governo certamente mi sono adoperato e ho dato un contributo, sono venuto a casa ferito, sono mutilato in guerra, però piglio 45.000 lire al mese, piglio”.
Sul suo modo di dipingere dice la nipote Rossana: “Con una mano teneva 1’altra perché gli tremava il braccio. Riusciva a dipingere rami con migliaia di foglioline, che ripeteva all’infinito, con una minuzia e una delicatezza incredibili. Così come i fiori e le casine. Li dipingeva in quadri molto grandi che anche oggi non riesco a guardare perché mi emozionano profondamente. Quello che amavo più in mio nonno era il suo animo infantile, quell’animo che ora dicono che dobbiamo recuperare per vivere nella compiutezza della vita. Ho vissuto tutta la mia infanzia con questa persona che spesso seguivo quando andava in giro per le mostre. Ricordo i viaggi quando andavamo in treno a Roma, Una sua caratteristica era che bablava, bablava (chiacchierava) all’infinito durante tutto il viaggio. Per iniziare guardava chi gli era davanti con un sorrisino, chiedendo: «Mi conosce ? Lei non sa chi sono io! Sono il pittore contadino celebre europeo Bruno Rovesti». Quando divenni grandicella un po’ mi vergognavo di queste sue esternazioni e gli dicevo che se continuava a dire «Lei non sa chi sono io!» non sarei più andata in treno con lui. «Va bene, va bene» - diceva - e si calmava, frenandosi nel parlare. Grazie a questo compromesso continuai ad accompagnarlo. A Roma non voleva spendere, andava in cerca delle locande più orrende e percorrevamo tutte le strade di Roma a piedi, non volendo saperne di prendere il tram e tanto meno un taxi. E in qualunque luogo si andasse a mangiare, ordinava sempre la cotoletta alla milanese.
Roma era una grande città, importantissima sotto 1’aspetto culturale, nelle sale di esposizione delle opere d’arte entravano specialmente appartenenti all’alta borghesia, molti legati politicamente alla destra. Mio nonno, che continuava a pensare che Mussolini fosse una bravissima persona, si trovava a suo agio in questo contesto. A parte ciò, apprezzavo molto la spontaneità di mio nonno che poteva parlare con 1’ultimo dei portinai e col massimo dei diplomatici alla stessa maniera. Quando divenni più grande e cominciai a capire, mi chiesi «Ma come fanno ad ascoltare mio nonno che fa dei discorsi così balzani, non erano certamente opinioni derivanti dal pensiero scientifico positivista». Andammo a una sua personale importante tenuta al Palazzo Barberini ove ebbe l’occasione di vendere un quadro. Gli dicemmo che gli saremmo andati a comperare un paio di scarpe, avendone bisogno. Lui non ne volle sapere, si oppose con tutte le sue forze, ma alla fine siamo riusciti a piegarlo e a compiere 1’acquisto.
Nel cortile della casa vecchia di Codisotto, dove abitavamo, metteva in mostra i suoi quadri, mentre teneva il suo prediletto gatto, che chiamava Machinìn, fra le mani.
Andava in bicicletta come un matto. Quando si recava in stazione mia madre gli correva dietro gridando «Va piàn! Aspettami! » Non aveva pazienza di aspettarla, anche se andava via in anticipo di un’ora.
C’era un forte contrasto con sua moglie Vittorina Mantovani. Nella stanza adibita a galleria della nuova casa era una continua battaglia. «Ma dai, daglielo questo quadro, che tiriamo su un po’ di soldi, per far la spesa!» Ma lui non ne voleva sapere, gli piacevano i suoi quadri e niente altro.
Valter Chiari, che allora si trovava a Parma per uno spettacolo, era venuto a casa nostra dove aveva scelto uno o due quadri, tra i quali uno che rappresentava una femmina seminuda sotto un albero, quadro intitolato Donna brasiliana. Ma mio padre si rifiutò nel modo più assoluto di darglielo, lo ha nascosto ed è ancora qui. Ritengo che Valter Chiari non sia mai riuscito ad avere un quadro direttamente da mio padre, ma da altri”. “Penso da Udo Toniato - aggiunge Chittolini - perchè Toniato, un bel personaggio ma molto smaliziato, naif mantovano di nascita ma guastallese di adozione, nel suo studio non teneva solo i suoi quadri ma anche di altri importanti naifs della bassa. Il suo studio, ove mi recai sovente, era frequentato anche da gente di teatro e di cinema”.
La nipote Rossana conclude la conversazione dalla quale emerge che il nonno, un personaggio spesso illogico nelle sue decisioni, intrattabile e rissoso, aveva un animo che queste parole rivelano: “Ho fatto le scuole superiori a Reggio. Non c’è stato un giorno in cui non sia venuto ad attendermi alla corriera delle due. Per cinque anni non ha mai mangiato prima delle due perché mi doveva venire a prendere alla corriera e mangiavamo poi insieme. Alla domenica , verso sera, mi veniva a prendere a casa, senza salire perché aveva avuto degli scontri molto forti con mio padre, un altro personaggio molto originale, e andavamo insieme a cena all’albergo della stazione”.
Ha coltivato in segreto la vocazione della pittura, esplosa incidentalmente all’Ospedale di Castelnuovo Monti. Una vocazione che non lo ha più abbandonato perché nelle immagini e nei colori riappropriava se stesso, in quadri che non vuol vendere per non alienarsi.
Una passione che si è completamente impadronita di lui, provocandogli delle allucinazioni, come quando di notte si svegliava di soprassalto, gridando di aver visto un paesaggio meraviglioso, mentre la moglie lo tirava per la camicia per richiamarlo alla ragione.